Saturday, June 4, 2016

La solitudine e gli occhi vivi di Muhammad Ali

(tempo di lettura 3'50'',  riletto ascoltando Mazzy Star, Fead into you)

Ci sono diverse sfumature che legano i colori della solitudine. Nella mia mente mi piace sempre pensare al silenzio tipico in cui il conteggio dei prima quattro, cinque secondi ti aiuta ad evadere in una dimensione superiore. Difficile far finta di nulla, difficile coinvolgere il mal d'Africa con un viaggio decisamente introspettivo. Per alcuni e' solo questione di evasione, per altri di spiritualità o forse speranza. Nel mio di caso, forse perché sono stato più fortunato rispetto alla media, la solitudine e' un viaggio nel bosco, con o senza il cane privo di guinzaglio. Non so perché, ma mi piace pensare al senso dell'orientamento messo alla prova da un ambiente sicuramente comune, almeno fino al momento in cui non ti accorgi di aver oltrepassato la soglia della dimestichezza quotidiana.

Ho ammirato Muhammad Ali per quasi venticinque anni. Dico venti perché a forza di entrare e uscire dalla stessa porta, perdi la concezione di cosa conta e cosa invece potresti tranquillamente lasciar perdere. Se proprio devo essere sincero, il ricordo che porto dentro me stesso e' legato ad una sera del lontano 2006 quando reduce dalla finale dei pesi massimi Vladimir Klitschko contro Calvin Brock al Madison Square Garden di New York, entrai in un deli dell'East Side per comperare qualcosa da bere e cominciai a scambiare due parole con la persona che stava dall'altra parte del banco. Gia', il banco. Da noi in Friuli il banco e' sinonimo di saggezza, con o senza la classica via di fuga legata all'etilometro, ma in quel contesto era tutto decisamente diverso. Armato di una macchina fotografica esteticamente brutta con pixel a sufficienza, mostrai al mio compagno di viaggio del momento una foto di “Ali boma ye”, il più grande di tutti i tempi. Se ami lo sport, se cerchi un luogo comune che ti aiuti a rimanere forte anche quando forti non siamo, beh non c’e’ personaggio migliore per trasformare la tua solitudine in un senso di energia pura che ti aiuta ad andare avanti, sempre e comunque.

A quei tempi, anche se per alcuni può sembrare inappropriato, insomma le macchine fotografiche non conoscevano internet. I telefoni erano ancora sulla cresta dell’onda del Blackberry e con tutto rispetto alla melodie che comincia con il si bemolle, la mia foto non poteva che essere vera. Mi ricordo come fosse oggi. Ero assieme al decano Massimo Lopez Pegna, aspettavamo l’evento principale. Mi ricordo che mi avevano parcheggiato nella famosa tribuna nord del vecchio Madison Square Garden che oggi non esiste più. Grosso modo al sesto piano, lontano dagli occhi di dio. Massimo, sin dalla sala stampa, mi aveva fatto capire che avrei potuto sedermi accanto a lui a due passi dal ring. Per me il ring e’ sempre stato Paolo Vidoz prima ancora che Stefano Zoff. Io gli ho seguiti quasi fino all’ultimo in giro per l’Europa e il mondo, loro combattevano, io scrivevo. Insomma, per quanto misero e in cerca di fortuna in un'America che non mi aveva ancora ospitato, sentivo che avevo il diritto di osare. Gia’, osare... un gioco da ragazzi.
Il mondo della boxe americana, anche se oggi miseramente in declino, puzza di steak house. Vedi cose che oggi non esistono più, papillon e donne finte sulle file centrali. Gente con capelli impensabili, boss mafiosi di ogni razza e celebrity in cerca della loro grazie mentre due disgraziati spesso nati e cresciuti in maniera non del tutto agiata, se le danno di santa ragione. Per la cronaca alle mie spalle c’era Bert Sugar, lo scribo con il sigaro in mano, sulla sua sinistra del personaggi che scaldavano l’indice della mano per far fronte alle macchinette che contano i colpi quando, quasi come da programma, il Madison si lascio’ andare con uno dei suoi boati. Apro una parentesi. I boati del Madison Square Garden si portano dietro i fantasmi del passato. L’altra sera in televisione guardando gara 1 delle finali Nba, stavano pubblicizzando il remake di Ghostbuster usando Carmelo Anthony, Spike Lee, Kristaps Porzingis e Walt Frazier. Partivano dal piano terra di Penn Station per arrivare a Time Square in cerca di creature verdastre. Io, visto che a volta mi assumo la responsabilità di dire che non capiscano una mazza, sarei rimasto al Madison dove, quando rimani solo nei pre e dopo partita, la puzza di popcorn ti porta indietro nel tempo. Evadi in un viaggio nel tempo ad occhi chiusi che ti li fa vedere tutti quanti, uno alla volta. Sono i fantasmi del passato che ti parlano in silenzio, da Carnera all’inchiodata di Starks in faccia a MJ. Da Sinatra a Freddy Mercury, tanto per par condicio.
Ma ritorniamo al boato di quella sera. Quello di cui tutti parlavano prima dell’incontro principale era vero, Muhammad Ali aveva deciso di andare a vedere l'incontro di sua figlia Laila. Il boato era il benvenuto del Madison Square Garden al più grande di tutti i tempi. Dovessi usare un hashtag, direi respect, di fatto come lo indicai con il dito a Massimo, il decano parti senza esitare facendosi largo tra la folla dei curiosi in nome del pass stampa. Arrivammo a cinque metri, Ali era seduto in prima fila a bordo campo, Massimo cercava di avanzare ancora di qualche passo, quando io mi fermai con paura di essere allontanato dalla sicurezza e tirai fuori la mia macchina fotografica. Una, due foto con zoom a livelli nemmeno massimo e la speranza che i pixel fossero dalla mia parte. Risultato Muhammad Ali era in prima pagina su Profumo di vaniglia. La foto era emblematica, lui tremava, non parlava, ma gli occhi erano vivi e ti sfidavano. Sfidavano e comunicavano con chiunque fosse a portata del suo radar. Accanto a lui, Dustin Hoffman, se questo può ancora interessare.

Ecco, questo era quello che cercavo di spiegare all’omino del deli dell’East Side, il quale nemmeno troppo sorpreso e fin troppo abituato a personaggi vicini alla mezzanotte, mi guardava e sorrideva quasi a confermare tutte le mie verità, o almeno questo era quello che mi faceva credere. Penso che eravamo sulla terza e decima strada. Lui si lascio’ andare con un ghigno sicuramente propositivo, mentre io, in qualche modo, avevo completato un altro sogno del mio viaggio partito da lontano: arrivare a vedere il più grande dal vivo a dieci metri di distanza. Punto.
Se ricordo bene, quella sera ero capitato dalla parte dell’East Side perché rispetto ad un’estate spesa con degli ottimi compagni di viaggio, ero in un periodo in cui sopravvivevo da solo. Ero forse in cerca di qualche musa mettendo alla prova l’abilita’ delle notte newyorkesi ma per una volta, di fronte al dato di fatto, non feci altro che comperarmi un pacchetto di "M&M’s" da un dollaro e cinquanta e puntare diritto alla linea gialla a Union Square, direzione Astoria. Per una sera, la mia musa era una fotografia che provava la mia gloria. Una fotografia che rendeva giustizia alla mia solitudine, a quella di tante altre volte in cui ti senti di mollare e invece devi crederci fino in fondo. Sempre.

Oggi a distanza di dieci anni, per dovute circostanze legate al 3 giugno 2016, mi sono messo a cercare quella foto. Al momento non l’ho ancora trovata. Era sul primo e unico profumo di vaniglia che oggi esiste solo negli archivi di un leonardo.it. che non riesco ad aprire, almeno non in questo momento.
Che storia il mio profumo di vaniglia. Il nome e quei ricordi a distanza di anni mi trasmettono ancora un amore incondizionato, un’essenza al di sopra delle righe. Emozioni che viaggiano nel tempo condite da una colonna sonora del momento in perfetta solitudine. Una solitudine che mi ha sempre fatto sentire forte, con o senza la parola cevapcici a portata di mano, con o senza gli occhi vivi del piu' grande di sempre a testimoniare il potere encomiabile della parola silenzio. E allora, visto che romantici e sognatori non pongono mai limiti al caso, oggi ho cavalcato la mia onda del sabato mattina e ho deciso di scrivere queste cose proprio la dove la ricerca su google mi ha portato indietro nel tempo: 16 novembre 2008.
Che dire, se trovo la famosa foto che ho perso tra un hard disk e un lap-top che non esiste più, prometto che la pubblico, intanto, per un altro giorno ancora, non mi resta che lasciarmi andare con l'unica frase che mi ricorda Muhammad Ali in tutta la sua grandezza: Ali boma ye. #respect

Ps. chiedo scusa se l'apostrofo viene usata come accento, la tastiera non mi ha accesso diretto e devo correggerle una ad una.

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