(tempo massimo di lettura 2'12''. Scritto ascoltando Prince con Dorothy Parker)
Una constatazione amichevole in grado di giocare a carte con il cuore. Quello di cavallo, abile a non fermarsi mai, nemmeno di fronte ad una situazione che ti aiuta a pensare. Non che ce ne fosse bisogno, ma correndo ai ripari, insomma, non proprio tutto fa brodo.
Un po’ come quando si dice che, parlando di tempo e considerazioni metereologiche, si e’ sempre spinti dall’istinto di chi non ha cosa da raccontare. Balle. O meglio, non oggi. Non oggi quando la corda del violino ha suonato una di quelle note utili a far cerchio attorno alla voglia, non sempre, di riuscire.
Non a caso prendi e passi da una Madison Square Garden senza pensare troppo a quel che sara’. Aspetti Beno Udrich per provare a parlare di basket ed Europa, di Slovenia e una Lasko sempre piu' europea, di rivincite che sanno di toccata e fuga con tanto di colonna sonora e alla fine, visto che la voglia di ritornare a casa ha prevalso sulle aspettative misere di un Sacramento vs Knicks a Penn Station, ti acconti di altre cose. Ti acconti di scrivere e raccontare che Mike Bibby si lamentava perche’ le sue scarpe non erano dentro uno di quei giganti borsoni rettangolari che contegono vita, morte e miracoli di una squadra Nba. Ti accontenti di scrivere che un soldatino ordinario, uno che di solito si veste in pantaloncini corti e maglietta, uno di quelli che passa volentieri al convento come assistente di seconda categoria, ha dovuto correre ai ripari nel negozio a due passi dal Madison. Mi pare che si chiama Footaction. E dico mi pare perche’ la batteria del computer conta i secondi che mancano e la voglia di scrivere fa sempre la differenza. Almeno in metropolitana. Almeno quando torni a casa saltando una partita e pensi a due squadre diammetralmente opposte come Knicks e Kings.
Due nomi e un fare comune quasi in preda alla rima del caso. Peccato solo che I primi non giocano, I secondi si’. Peccato che un coach, Reggie Theus, parla fin troppo volentieri della sua gestione alla corte dei pazzi scatenati. Quelli che si conquistano le colonne dei giornali a suon di cronache non sempre rose e che poi, non appena rimettono piede nella loro New York, beh Ron Artest assieme a Rasheed Wallace sarebbero due ottimi compagni per un coast to coast dentro uno dei famosi camion del postino. Questione di deboli di cuore. Questione di guerrieri in procinto di chiudere per ferie e di pensare, almeno per una volta, non al potere comune del giocare a basket, bensi’ alla voglia di stare assieme e raccontarci.
Un modo come un altro per augurare Buon Anno al prossimo, ricordandosi che Isiah, almeno nelle interviste pre partita, riesce ancora a trovare l’ironia di scherzare, fare batture e ricordare a quanti non abbiano le idee chiare sull’argomento, che lui non si muove. Che lui vede la luce alla fine del tunnel. Anzi, lui spera proprio che nessuno di metta in mezzo. Nemmeno un Marbury che ha fatto il suo ritorno al Madison. Una notizia da prima pagina. Un argomento sul quale ridere e discutere, sempre che non ti capiti di trovarti spalla a spalla con George Vecsey del New York Times. No, lui e’ una di quelle colonne d’Ercole che hanno fatto la storia di questo mestiere. Non a caso appena capisce che sono italiano (e non e’ la prima volta) ci lasciamo andare con due racconti e un sottofondo calcistico che valgono il prezzo del biglietto. Quale? Lui, innamorato di Italia come tanti altri, beh lui e’ stato uno dei pochi ad intervistare Dino Zoff durante I mondiali del ’82. A dire il vero anch’io ho avuto questo pregio, magari in circostanze diverse. Non era la terra dei tori furenti, bensi’ la palestra comunale di Mariano tirata a festa per il ritorno a casa (del tutto occasionale) del suo campione. Mitja, domandagli se pensa di convocare qualche giocatore dell’Udinese. Forse si’, forse no, o forse solo una frase da esibire di fronte ad un giornalista di quelli che contano, neanche a doversi ricordare che il mondo, per quanto rotondo, e’ davvero piccolo.
Cosi’ piccolo che dopo una settimana di permanenza, mi ha riportato in Italia mio fratello Borut (clicca qui) dopo la sua prima trasferta nella Grande Mela. Un presente vigliacco. Una storia da scrivere o forse, solo un’emozione da far scorrere via. Tanto qui, la bicicletta e’ sempre la stessa. Con o senza Isiah o il George Vecsey di turno. E allora, tanto vale continuare a pedalare.
Wednesday, January 2, 2008
Mike Bibby si dimentica le scarpe, Isiah la testa
Posted by Profumo di vaniglia at 8:31 PM
Labels: Racconti metropolitani
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