Monday, January 21, 2008

La Nba pensa di giocare all'aperto

(tempo massimo di lettura 2'03''. Scritto ascoltando 5+9 dei Radiohead)

Quando si dice una vita in ritardo, si pensa sempre a quei famosi dieci minuti in grado di fare la differenza. Poco importa come o quando, di fatto con la metro o con la bici, con la macchina o a piedi, si finisce per arrivare sempre dopo. Neanche fosse una questione di coincidenza o anche solo di puntualita’ all’incontrario, mi comincio a rendere conto che volenti o nolenti non posso per davvero farci nulla.
Come quando mi scopro tifoso di uno sport difficile da concepire come il football americano e mi rendo conto che i miei urli davanti al televisore avevano un senso: i Giants hanno staccato il biglietto per il superbowl. Cose dall’altro mondo se pensiamo che fino a qualche mese, chiaccherando con i colleghi giapponesi che chiaramente si fanno sempre trovare preparati (folkoloristicamente parlando), mi giungevano notizie poco confortanti. Come quando domenica scorsa, in preda ai sogni di gloria di quei Knicks che hanno ricominciato a vincere le partite che non contano, scherzando mi ero detto pronto ad andare fino nel Wisconsis in macchina, pur di seguire da vicino il destino di questa squadra. “Really?” mi avevano risposto loro con faccia che da rotunda si fa seria. Stai scherzando o sei davvero convinto di potercela fare.

Una vita da giapponese, potrei anche aggiungere, senza per forza passare dai samurai o da quel cibo che di nome fa sushi e che di fatto, fa ancora la differenza. Almeno quando apparecchi la tavola con la mano destra e pensi a come il marketing della Nba non ha mai un limite alla fantasia. L’ultima trovata infatti, parla della possibilita’ di poter giocare le partite all’aperto, vale a dire in stadi da capienze stellari per il mondo della palla a spicchi, tempo permettendo. Si parla di esperimenti plausibili a Phoenix, Dallas e Los Angels, mentre tutto tace sulla costa Est. Di fatto, visto che quelli del Madison Square Garden hanno il pregio di andare oltre ad Isiah, qua si parla piu’ di Yankee Stadium che di altro.

Cose che capitano, intanto posso tranquillamente dire che per la prima volta da quando mi trovo in terra straniera, mi sta venendo la nausea da pallacanestro. Non l’avrei mai immaginato ne tanto meno preventivato, ma non riesco proprio a capire come i conti non fanno a tornare in una terra che pur, tradizioni alla mano, ha sempre fatto la sua parte. Non riesco a capire come mai il destino abbia voluto mettere fuori gioco un uomo di nome Stephon Marbury per dare credibilita’ alla fatidiche seconde linee newyorkesi. Quelle che stanno allungaqndo la vita ad un altro di uomo, uno che di nome fa Isiah e di cognome fa Thomas. Che mi crediate o no, dopo il filotto della scorsa settimana, piu’ di qualcuno sui giornali nemmeno troppo locali aveva lasciato trasparire questo senso di disagio: no, proprio adesso che sembrava partire, si mette a vincere quel che basta per far ripensare Dolan. Cose da matti o anche solo, cosa che capitano in un film senza titoli di coda. Gia’, come quando ho scoperto – mi ero rifiutato di chiedere l’accredito – che I Knicks hanno battuta i Nets per la terza volta questa stagione. Incredibile! Incredibile come il famoso tifoso che la scorsa settimana e’ stato allonato dal palazzo a causa ancora a vaglio degli inquirenti. Piu’ di qualcuno ha capito che poteva c’entra il biglietto d’entra, di fatto lui non ha fatto nient’altro che presentare alla luce dei paganti un cartello con la scritta: Fire Frank. Cose che capitano quando la gente prende coraggio, cose che capitano solo in questa parte di mondo: guai a toccare questa Nba. Si rischia grosso. Si rischia davvero grosso.

O forse e’ solo colpa di quei fatidici dieci minuti che mi tolgono lucidita’ a scapito di un mondo, quello esterno, in cui alla fine tutto torna e tutto continua a filare liscio.
Non a caso questi Giants in finale suonano molto come la rivincita di una citta’ nei confronti di un’altra, quella che di nome fa Boston, che negli ultimi anni non appare poi cosi’ in ritardo. Leggi Red Sox, leggi Patriots e perche’ no, anche Celtics. Altro che Joe Torre e gli Yankee di inizio millenio, i Mets vittime del fratello maggiore o gli abulici Jets. No, in un giorno di vero inverno dove le temperature gelide mi hanno ricordato il vero freddo made in USA, scopri che esistono questi Giants. Parenti nemmeno troppo sarpenti di storie dall’altro mondo. Quelle che non parlando di basket, di Knicks, Nets o anche solo di campi all’aperto. Quelli che, per quanto in ritardo, hanno finito per regalare credibilita’ e una febbre da Superbowl che non avevo mai sentito cosi’ sincera. Almeno in questa vita, almeno in questa situazione. E per una volta, che vinca per davvero il migliore.

3 comments:

Unknown said...

meno dei fatidici 10 minuti, molto meno, sono frazioni di secondo, attimi che poi chiamaiamo destino, circostanze, colpi di culo...sono quei momenti che non riusciamo quasi mai a cogliere in tempo reale ma siamo consapevoli che in quell'attimo qualcosa per noi cambierà e restiamo lì, spettatori del nostro destino.
basket all'aperto, chi lo fa per passione e per miseria chi lo fara per business!! io giocavo la serie D girone veneto la domenica mattina, rigorosamente nella nebbia e il riscaldamento era veramente per riscaldarsi!! a ripensarci ora dopo tanti anni mi viene in mente che in due ocasioni girava voce che dispersi nella nebbia polesana c'erano 2 osservatori americana...cercavano idee!!

Profumo di vaniglia said...

o anche solo una trattoria. Sui dieci minuti sono d'accordo, forse anche meno. Sul campo all'aperto, beh non mi stupisce il sistema Nba...fare di tutto e di piu'...tanto, quando chiedi la testa dell'allenatore come si usa da noi in Europa, loro ti accompagnano alla porta. Non lo decide la squadra di casa che non ingrana, ma le lega. Domanda: questa e' democrazia?

Anonymous said...

ciao mitja.
ti ho scritto un paio di mail.
aspetto una tua risposta.
Simone Nicoletti

 

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